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di Francesco Merloni
Il seminario di Dem.e.tra. del 24 marzo è stato di grande interesse perché ha cercato di mettere insieme le riflessioni di studiosi di diverse discipline intorno al tema del finanziamento della sanità, nel quale l’unitarietà del servizio sanitario nazionale dovrebbe essere assicurata da un lato da un sistema di finanziamento nazionale fondato sulla garanzia dell’uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalla regione in cui vivono e dall’altro dalla possibilità per le regioni di fornire concretamente i servizi sanitari, differenziando le soluzioni organizzative. Sicuramente non sono utili proposte di nuova centralizzazione dell’intero SSN (come nel disegno di legge, primo firmatario Massimo Villone), come se fosse possibile garantire i diritti di salute con un sistema tutto governato da Roma. I profili critici che sono emersi mi sembra riguardino in primo luogo il rapporto tra diritti sociali garantiti dalla legge e l’effettiva disponibilità di risorse finanziarie. La giurisprudenza costituzionale citata da Francesco Bilancia sembra definire certi diritti come non comprimibili, ma poi si aggiunge sempre la clausola “nei limiti delle risorse disponibili”. Allora c’è soprattutto un problema generale di risorse, del peso della spesa sanitaria sul Pil (il 7,5, % secondo i dati di Petretto, meno che negli altri paesi europei). Questo è un punto cruciale, perché si è già visto che la quantità complessiva di risorse dipende largamente dai vincoli di bilancio, che sono in gran parte vincoli esterni, europei, di equilibrio del bilancio. Qui va posta una domanda: se per avventura (molto probabile, ahimè) l’Italia si trovasse di nuovo in una emergenza finanziaria (per il peso dei tassi di interesse in un periodo di inflazione in crescita, per una crisi bancaria non evitata, che costringe all’immissione di denaro pubblico a debito, ecc.) l’ammontare complessivo destinato al SSN può diminuire? Può verificarsi che tra le “condizionalità” con cui risorse europee vengono attribuite all’Italia (per esempio in caso di ricorso al MES) vi sia anche la riduzione delle risorse destinate alla tutela dei diritti sociali? C’è poi un problema del sistema con il quale i fabbisogni vengono quantificati e le risorse distribuite, all’interno però del vincolo complessivo di cui sopra. Con i Lea che, se capisco bene, non entrano nella determinazione del fabbisogno che si fa su un criterio, molto più grossolano, della spesa pro-capite corretta in base alla distribuzione della popolazione per fasce d’ età. Stabilito in questo modo quanto ciascuna regione deve ricevere, si considera quanto la regione riceve da fonti tributarie autonome (IRAP, addizionale IRPEF e Bollo auto) e lo Stato versa la differenza, ricorrendo alla “finzione” di cui ha parlato Pisauro, sotto specie di compartecipazioni all’IVA, quando invece si tratta di un trasferimento. Mi sembra che la critica di Pisauro all’art. 119 Cost. sia fondata, perché con la riforma del 2001 si demonizzano i trasferimenti come il male assoluto. Ora non c’è dubbio che i trasferimenti in un sistema troppo squilibrato in senso centralistico, in cui lo Stato di fatto fissa le quantità di risorse da destinare alla sanità (ma il discorso riguarda tutti i diritti sociali), salvo poi a concordare sul modo in cui esse vengono ripartite, non fanno che peggiorare la situazione. Ma il problema non sta nel trasferimento di risorse, ma nel potere di stabilire la grandezza della torta da dividere. In un sistema fondato sul decentramento collaborativo e non competitivo questa determinazione non può che farsi con una decisione condivisa, partitaria tra stato e regioni. Non a caso un sistema federale come la Germania, nel quale i Laender partecipano a questa decisione, l’uso dei trasferimenti è pacifico. Il finanziamento delle autonomie territoriali dovrebbe, quindi, fondarsi soprattutto sull’autonomia tributaria (da ripristinare quella degli enti locali, massacrata soprattutto dalla demagogia della riduzione dell’imposizione sugli immobili) e da un condiviso sistema di trasferimenti, fondato però su criteri di quantificazione del fabbisogno più raffinati. Sui quali mi sembra di capire, da Zanardi, che siamo molto indietro, per colpe storiche e per difficoltà oggettive, e che la situazione è diversa tra funzioni storicamente locali e funzioni che si decida di decentrare (nel secondo caso si può almeno partire da quanto lo Stato ha già speso nell’esercizio delle funzioni decentrate, trasformando progressivamente la spesa storica in un fabbisogno fissato in rapporto ai risultati da raggiungere, fissati consensualmente in termini di livelli di prestazione). Un ulteriore problema sta nell’autonomia degli enti territoriali nell’utilizzazione delle risorse che finalmente sono a loro disposizione. Se le risorse fossero distribuite avendo riguardo ai Lep da garantire a tutti i cittadini italiani, vi sarebbe un vincolo di destinazione (le risorse devono essere effettivamente destinate agli scopi per cui sono assicurate)? Vi sarebbe un vincolo di risultato (in caso di mancata garanzia dei Lep lo Stato può revocare le risorse, o sostituirsi all’ente territoriale inadempiente)? Nel caso della Sanità lo Stato si limita ad assicurare l’ammontare complessivo delle risorse o può fissare degli obiettivi che riguardino anche il come i diritti sono garantiti? Dopo la pandemia è possibile imporre alle regioni che si dotino di una rete territoriale di presidi della salute? È possibile imporre una quota minima pubblica del sistema regionale e comunque una regolazione più severa del contributo dei privati all’erogazione di servizi sanitari? Se si risponde di sì a queste domande inevitabilmente l’autonomia organizzativa delle regioni si riduce, o, meglio, si concentra sulla ricerca della qualità, organizzativa e di risultato, del servizio sanitario e sulla possibilità di richiedere ai propri cittadini di contribuire fiscalmente all’innalzamento dei livelli di prestazione.